Di Lapo De Carlo
14 Luglio 2021
Pochi conoscono uno splendido docufilm uscito qualche anno fa e dal titolo divertente: “Get Shirty”, nel quale si ricostruisce la storia delle maglie da calcio e l’evoluzione che le ha rese negli ultimi 50 anni un fondamentale prodotto di marketing nella vita di ogni club in Inghilterra e poi nel mondo.
Alcune scelte sono state benedette da intuizioni notevoli, altre si sono rivelate errori tragicomici.
L’incipit di questo articolo si rivolge naturalmente alla nuova maglia dell’Inter, la quale, come tutte quelle che vanno in una direzione più radicale e stravolgono lo status quo, divide i tifosi sulla qualità della scelta.
Il problema è che la nuova maglia non pone un problema esclusivamente estetico ma identitario.
Diversi ascoltatori di Radio Nerazzurra hanno perfettamente centrato la questione: “la maglia a me piace, è molto bella, il fatto è che non è quella dell’Inter”.
È un mantra recitato da tanti tifosi i quali hanno la pretesa di vedere il nerazzurro come unica condizione. Qui abbiamo una divisa con tante striature di blu ma senza il nero, confinato nei bordini delle maniche. Alla fine ci abitueremo, come ci si abitua a tutto: ad esempio la scorsa stagione le righe nere e azzurre andavano giù a zig zag e la seconda maglia veniva chiamata tovaglia, ma la vittoria dello scudetto e il rendimento ha reso tutto più digeribile.
Lo standard estetico dipende dalle tendenze e i brand, che producono e lanciano sul mercato le “football jersey”, si adattano alla domanda stilistica del mercato. La Nike qualche anno fa ha proposto il fit più discutibile dell’intera storia nerazzurra, disegnando una divisa gessata, nello stesso anno in cui anche il Milan aveva una maglia più vicina al nero che al rosso.
Durante la stagione vennero giocati due derby nei quali i tifosi facevano quasi fatica a comprendere chi fosse dell’Inter e chi del Milan. Oggi ci propone una pelle da biscione, rievocando il simbolo nerazzurro. È un azzardo a cui si può augurare tutto il bene.
Quello che resta a tutti incomprensibile è perché rinunciare a uno dei due colori fondanti. È altrettanto vero che il principio di identità appartiene più ai tifosi “locali”, residenti nella città di origine del club. Oggi però l’Inter è più che mai mondiale e alcuni precetti vengono sentiti meno dai giovani e da chi è interista da altri Paesi.
Resta il fatto che l’appartenenza passa attraverso l’identità, ma il marketing passa sopra questo concetto, perché interessa solo che i tifosi comprino, non che si sentano più interisti.
Lo sponsor vuole divise profondamente innovative ma non è interessato al fatto che siano antistoriche, perché “storico” è vecchio e i clienti a cui si rivolgono sono giovani, sono quelli che comprano le maglie e molti di loro non sanno nemmeno come fosse la maglia della Grande Inter di Herrera e a malapena la celebre maglia del ’98.
La necessità di volere qualcosa di interista, che sia una maglia o un team manager, che sia un allenatore o un dirigente, uno stemma o persino un presidente, nasce anche dagli enormi stravolgimenti di questi anni.
Tanti troppi cambiamenti, come non era mai avvenuto in più di un secolo di storia. Dal 2014 in avanti si vive costantemente senza punti di riferimento, quelli che servivano ad avere un orientamento, il quale oggi è dato dal solo nome della squadra e dai suoi risultati. Il sogno è quello di riavere una maglia classica, nera e azzurra, un allenatore che rimanga per più di due anni, gli stessi dirigenti e un presidente presente.
Un giorno tutto questo tornerà ad accadere.
Giornalista e direttore Radio Nerazzurra, opinionista a Sport Mediaset e TL, insegno comunicazione in Università e ad aziende. Ho un chihuahua come assistente e impartisco severe lezioni nella nobile arte del tennis ad amici e parenti.