Di Fulvio Giuliani
27 Novembre 2020
Ci sono partite che non verranno ricordate mai. Partite che, in fin dei conti, non ha senso giocare. Quella di ieri sera, contro i croati del Rijeka, in Europa League, più di qualsiasi altra. Scendere in campo ieri, in uno stadio San Paolo deserto, a una manciata di ore dalla notizia che ha sconvolto il mondo e prostrato un’intera città, è stata soprattutto una testimonianza. Un atto d’amore. La partita è iniziata e finita, con i giocatori schierati in campo con la 10 del più grande di ogni epoca, Diego Armando Maradona. Il resto non è neppure contorno, praticamente non è esistito. I tre punti servono, ma oggi facciamo onestamente troppa fatica a trovare interesse nel destino del girone eliminatorio della seconda competizione continentale europea. Sia detto con il massimo rispetto e sapendo che presto torneremo a ragionare di AZ Alkmaar e Real Sociedad, come è giusto e naturale che sia. Però, ancora per qualche ora, ci sia consentito pensare ad altro. Parlare d’altro.
Cosa è possibile aggiungere, direte voi, al diluvio di parole e sentimenti seguito alla notizia di mercoledì sera? Basta fermarsi pochi secondi a riflettere e le parole cominciano a uscire da sole. Nel flusso di ricordi non fai nessuna fatica, soprattutto chi ha avuto la fortuna di esserci. Come il sottoscritto. Oltretutto da ragazzo, da adolescente, l’età della vita in cui ci formiamo e in cui l’imprinting comincia a non essere più solo quello dei nostri genitori. Per noi, ragazzi degli anni ‘80, Diego è stato (verrebbe da scrivere semplicemente e ti rendi conto dell’enormità di ciò che stai pensando) parte del nostro quotidiano, fino a diventare parte della nostra vita. Si miscelano con assoluta naturalezza i ricordi più intimi e quelli condivisi da milioni di persone, in ogni angolo della terra. È un effetto straniante, un dolore privatissimo, unito a quello più globale e ostentato che si possa pensare. È la storia di queste ore a Napoli e di tutti i napoletani sparsi per il mondo. Di chi non è potuto andare in pellegrinaggio allo stadio o al murales nei quartieri spagnoli. Esserci fisicamente è un atto di importante testimonianza, ma c’eravamo anche noi.
Lo stadio deserto di ieri era particolarmente insopportabile ed è giusto provare a riempire quel vuoto con delle parole quasi poetiche. Sono di Maurizio de Giovanni, scrittore e tifoso viscerale. Commentando con lui l’addio a un pezzo di noi, abbiamo rievocato le domeniche in cui correvamo – ragazzi, appunto – lungo le ripidissime scale che portano al secondo anello del San Paolo. De Giovanni ci ha pensato un attimo e poi ha risposto: ‘Volavamo come spinti dal vento, perché ci aspettava Diego’.
Non c’è più e ci sarà sempre, una responsabilità enorme per i ragazzi che da oggi vestiranno quella ‘camiseta’. A loro portarla con orgoglio e dedizione, al di là del risultato. Perché giocando al calcio puoi vincere e puoi perdere, ma alla fine conta ciò che lasci nel cuore e nella memoria di chi verrà dopo.
Giornalista, speaker radiofonico, conduttore televisivo ed editorialista. Giornalista professionista dal 2000 conduco da oltre 20 anni “Non Stop News”, una delle trasmissioni di punta della prima radio per ascolti in Italia, RTL 102.5.