Di Lapo De Carlo
18 Agosto 2020
Tra piroette e contorsionismi, polemiche acide, pallottole dei nemici ma anche il fuoco amico, nel mezzo di un’epidemia storica, giudizi devastanti e definitivi verso una squadra già da rifare e un allenatore (già) da cambiare, l’Inter in un mese è arrivata seconda in campionato e in finale di Europa League. Dovrebbe essere una lezione sacra e saggia verso tutte le persone, dai tifosi ai giornalisti, che si dedicano alla pratica del giudizio estremo, insindacabile e netto verso una squadra, una società, un allenatore e dei giocatori.
La critica è un’attività del pensiero fondamentale e andrebbe utilizzata con intelligenza, a differenza del metodo isterico con la quale viene usata per fare funerali e celebrare resurrezioni ogni settimana, rendendo la materia del calcio, nella fattispecie dell’Inter, un minestrone di contraddizioni senza logica. L’Inter ha vinto paradossalmente grazie ai due uomini più contestati e criticati degli ultimi mesi: Conte e Lautaro Martinez e lo ha fatto mostrando tutta l’argenteria, con una partita equilibrata, robusta e quasi perfetta, contro un avversario con grande talento ed esperienza come lo Shakhtar.
La finale di venerdì contro il Siviglia dirà altre cose, perché l’avversario è durissimo: ha eliminato una squadra per molti versi simile all’Inter, come il Manchester Utd, è il club che ha vinto più Europa League e che non ha mai perso, nemmeno una delle cinque finali (di cui una col Liverpool di Klopp) che ha disputato dal 2006 ad oggi. Il trionfo dunque è tutt’altro che scontato, ma la finale restituisce all’Inter, e al lavoro svolto questa stagione, il giusto peso.
È successo tutto in un mese, dopo un 2020 che rimarrà tristemente nella storia per l’incredibile impreparazione del pianeta verso un virus previsto da anni, nemmeno fossero scesi gli alieni da Marte, e che ha rivelato l’assoluta incapacità di gestione dei vertici calcistici, oltre a un orba concezione che non aveva messo nel cassetto alcun piano di emergenza in caso di guerre o calamità varie. L’Inter, in tutto questo, ha navigato contro vento, contro i suoi difetti e le sue attitudini mentali non ancora all’altezza delle ambizioni. Ha perso partite sanguinose e pareggiate altre che parevano già vinte e ha polemizzato anche al suo interno, come verso l’esterno, nel tentativo di ottenere una risposta.
Se l’Inter avesse chiuso mestamente il Campionato e fosse stata eliminata in Europa League, avremmo parlato di un tentativo maldestro e mal riuscito di Antonio Conte di scuotere l’ambiente, si sarebbe parlato di rifondazione della squadra e possibile esonero del tecnico (per giusta causa), con l’arrivo di un nuovo ennesimo progetto tecnico promettente. Conte, invece, ha vinto ancora prima di giocare la finale di venerdì perché, in meno di un mese, ha ribaltato il tavolo e ottenuto prestazioni e risultati dalla squadra, ha stimolato la società a un confronto aspro e franco sulle modalità della dirigenza e ha ottenuto consenso da parte degli stessi tifosi che non lo amano.
La stampa ha mantenuto un atteggiamento poco sereno verso l’Inter e incoerentemente, rispetto al passato, quando c’erano polemiche stucchevoli verso una squadra che schierava “troppi stranieri” e nessun italiano: ieri è arrivata in finale con sette italiani in campo (Gagliardini, D’Ambrosio, Bastoni, Barella, Sensi, Biraghi, il giovanissimo Esposito), senza contare Candreva non impiegato.
L’Inter, al di là del risultato di venerdì, deve comunque tutelarsi politicamente, deve gestire meglio la sua comunicazione all’esterno e deve ancora crescere molto, se l’obbiettivo è quello di restare permanentemente ai vertici del calcio italiano e mondiale e non restare in alto tre o quattro anni, per poi scivolare e ritornare dieci, quindici anni dopo. La strada tracciata ora è quella giusta.
Giornalista e direttore Radio Nerazzurra, opinionista a Sport Mediaset e TL, insegno comunicazione in Università e ad aziende. Ho un chihuahua come assistente e impartisco severe lezioni nella nobile arte del tennis ad amici e parenti.