Di Massimo Zampini
Aggiornato: 30 Luglio 2020
La partita di Cagliari non l’ho vista e quella con la Roma non mi interessa minimamente: vorrei solo che davvero si giocasse con l’Under 23, tanto ormai i verdetti in zona Europa sono emessi e, almeno per una volta, non corriamo il rischio di falsare il campionato. Quello che conta, l’unica cosa che conta è che la Juve abbia vinto un altro campionato, prevalendo per la nona volta di fila (si parla di oltre tremila giorni da campioni). Tutto questo con un nuovo allenatore, che ha saltato buona parte della preparazione per una brutta polmonite; con il capitano infortunato alla prima partita e fuori per tutta la stagione; con un giovane difensore, pur se fenomeno, da inserire in fretta e furia, mentre alla Juve di solito c’è una gavetta in panchina da fare per tutti; con tanti gol subiti e una marea di rigori contro; con un’emergenza mondiale che ha cambiato i piani di tutti noi, ma per quel che qui interessa ha costretto la Juventus a giocare tutte le partite chiave senza il pubblico a favore; con rivali come l’Inter di Marotta e Conte più Handanovic, Godin, De Vrij, Skriniar, Brozovic, Barella, Sensi, Eriksen, Lukaku, Lautaro più qualche altro acquisto a gennaio di discreta esperienza internazionale, tra cui Alexis Sanchez. E con la pancia piena, ecco il vero punto, perché volenti o nolenti dopo tremila giorni in cui vinci solo tu la fame è necessariamente diminuita, mentre quella altrui è aumentata. E mentre si lamentano per arbitri, calendari, scansamenti e presunte ingiustizie di ogni tipo, non si rendono conto che in questi 9 anni la Juve non solo ha sempre vinto, ma lo ha fatto ogni volta prima dell’ultima giornata, senza un brivido, un fotofinish, neanche quando è partita a handicap, per vedere l’effetto che faceva.
E la frustrazione è tale che nell’ironia un po’ malinconica del genere “ormai siete il Rosenborg o i Rangers”, insomma saremmo come i campioni di Norvegia o Scozia, si scordano di pensare che loro da 9 anni sarebbero l’Aalesund o il St. Johnstone, nulli in Italia e sempre largamente peggio di noi in Europa (con la nobile eccezione della Roma semifinalista e in attesa di queste coppe agostane un po’ particolari). La frustrazione altrui, ecco il tema che emerge più vistosamente, imbarazzante nella totale assenza anche del formale “congratulazioni” a fine anno, arrivato solo da Sampdoria, Pescara, Pro Vercelli e da qualche società dilettantistica: e io li capisco, eh, non solo perché i 4 anni dell’Inter mi parevano infiniti – figuriamoci 9 – ma anche perché se facessero un mezzo tweet di complimenti sarebbero sommersi di insulti dai propri tifosi: “cancellate, non fate i complimenti a quei maledetti, ladri, brutti, sporchi”.
Questa, sia chiaro, è la parte più divertente, che rende ogni scudetto più incredibile: l’ennesima grandissima impresa della Juventus, del suo allenatore, dei suoi giocatori, anche quest’anno, con conseguente ennesima micidiale frustrazione altrui.
Poi c’è l’altro aspetto, anch’esso spiegabile ma decisamente più oscuro: quel mood eternamente grigio, talvolta rabbioso, riscontrabile ormai tra troppi fratelli juventini, che sarebbe eccessivo sempre, ma risulta addirittura paradossale nel ciclo più vincente della storia del nostro calcio: rabbia se si gioca male, mugugni ai primi che sbagliano, sereni passaggi da marottaout a paraticiout, da allegriout a sarriout, out tutti e, di fronte al tifoso juventino che cerca di riportare tutto al giusto contesto (“ok le critiche, ma vi rendete conto di cosa stiamo vivendo?”), ecco anche il tifosoout, aziendalista, buonista (secondo il tragico linguaggio di questi tempi, anche in politica) e così via. Paradossale ma appunto spiegabile, perché pancia piena vuol dire abitudine, vuol dire dare per scontato che debba vincere tu, ovviamente con qualche giornata di anticipo, possibilmente convincendo, e se provi a spiegare che anche dopo un orrido Sassuolo-Juve (orrido, eh, non lo nega nessuno) sei ancora più vicino alla festa, ecco altra rabbia, perché “c’è da vergognarsi a vincere lo scudetto così e non hai scritto che Sarri deve andarsene!”.
Tutto questo, dicevamo, dopo tremila giorni di me e di te. E dopo uno Juventus-Sampdoria, tremila giorni dopo il primo scudetto, visto in un baretto in un’isola greca (vuol dire anche questo, avere CR7, vedere dei ragazzi greci che si fermano a guardare una partitaccia perché è inquadrato lui), provando la stessa sofferenza fisica e psicologica dei giocatori, di de Ligt che si tocca ancora la spalla, di Dybala che si ferma stirato, del Pipita che non riesce a segnare, di Ronaldo che ha vinto tutto e ha sempre più voglia degli altri (ecco perché è CR7), di Bonucci e Alex Sandro ormai esausti, di Sarri che non vede l’ora di vincere e anche quando vince non sa che fare, torna negli spogliatoi, esulta lì, beve e dice ai suoi “se avete vinto con me, siete davvero bravi”. E provo, pur se declinata in modo diverso, meno estrema ma più consapevole, proprio come l’amore dopo qualche anno, la stessa gioia di allora, della prima volta, quando al governo c’era ancora Monti ed Emma Marrone vinceva un festival di Sanremo condotto da Morandi e Ivana Mrazova, che a dire il vero non so nemmeno chi sia.
Grazie, Juventus, grazie di cuore. Sono tremila giorni che, almeno per un buonista come me, sarà impossibile dimenticare.
Autore di 4 libri, praticamente identici, cambiando solo il titolo e i nomi dei protagonisti: finale sempre uguale. Blogger e opinionista tv. La frase che mi sono sentito dire di più in vita mia? "Ma come fai a essere di Roma e a tifare per la Juve?"