Di Massimo Zampini
28 Maggio 2020
Maggio, lo abbiamo scritto proprio su questo sito, è un mese zeppo di anniversari, feste e giorni straordinari: una miriade di scudetti (tra cui quello del 5 maggio), la Champions di Roma, le altre coppe europee vinte, gli struggenti, ma meravigliosi addii di calciatori indimenticabili. C’è anche qualche sconfitta, certo, tra scudetti persi in volata e finali amare (proprio il 28 maggio si ricorda Manchester 2003, ma il 25 per esempio è il compleanno della più dolorosa e inaspettata Atene ’83), ma quello è calcio, si vince e si perde, è la sua regola e il suo fascino, ci si può riprovare l’anno dopo.
E poi, inesorabile, arriva il 29 maggio.
E il problema è che lì non c’è vittoria e non c’è sconfitta: lì c’è l’”Olocausto”, come titolò il Guerin Sportivo di allora, con foto in copertina (del maestro Salvatore Giglio) di un uomo con la barba, sciarpa bianconera al collo, che veglia su un signore più anziano di lui mentre intorno la gente passa. Nell’espressione di quell’uomo c’è tutto: l’assurdità della situazione, la richiesta di aiuto e magari la richiesta di spiegazioni a chi può spiegarci qualcosa, del come si faccia ad andare allo stadio e morire, andare allo stadio e veder morire un proprio caro, un figlio, un padre, un amico.
E l’Olocausto si porta dietro tante storie, private, pubbliche, si porta dietro chi cerca di tenere sempre viva le memoria e chi ci ride sopra, perché è facile ridere di qualcosa non vissuto in prima persona, magari si risulta originali e divertenti, chissà.
Si porta dietro una partita surreale in un ambiente incredibile, giocata contro il volere della Juventus, vinta con Tacconi migliore in campo (“è la mia migliore partita, ma non voglio e posso parlarne”). E le polemiche, ovviamente, sennò che gusto c’è? E allora eccoci con il rigore fuori area, anche lì, spazio al moviolone e ai veleni perfino quel giorno, perché non ci si deve fermare di fronte a nulla. Ecco poi l’offesa alla Juventus, che tiene in bacheca quella “coppa sporca di sangue”. Perché tu arrivi in finale, quel giorno un’orda di teppisti fa tutto quello che può per annientare i tuoi tifosi, riesce a travolgere tutto fino a farne morire 39 (di cui 32 italiani), ti obbligano a giocare la partita per motivi di ordine pubblico, ma alla fine sei tu che hai sporcato la coppa di sangue. E so che tanti fratelli juventini la pensano diversamente, ma per me è una coppa da tenere stretta in bacheca, mostrare al Museum in omaggio a chi era andato lì e non è tornato, a chi era lì ed è tornato, ma quella notte non se la toglierà più dalla testa, come eterno ricordo del passato e come monito per il futuro. E i cori di scherno di tifosi troppo stupidi per essere tifosi, e le rimostranze perché “poi avete fatto il giro di campo, quello ha sorriso, quello ha esultato”, insomma tutto, ma proprio tutto, nascondendosi ipocritamente con la mai così poco appropriata espressione del “rispetto dei morti”. Tutto, tranne il ricordo e il raccoglimento, l’unica reazione che i parenti dei defunti avrebbero apprezzato davvero.
Utilizzare morti e tragedie per le proprie grette polemiche calcistiche, un classico riemerso anche di recente e di cui a quanto pare non è facile liberarsi.
Ma questo non conta, sono vicende grette e la notte dell’Heysel va ricordata per altre storie, come quelle di chi ha salvato delle vite, chi si è sacrificato, chi lavora tutti i giorni per ricordare come si deve. C’è una stele dedicata nello Juventus Museum, con i nomi delle vittime; c’è un museo virtuale, la sala della memoria Heysel aperta da Domenico Laudadio; ci sono le iniziative che sempre più spesso tendono ad accomunare il dolore per Bruxelles e Superga, due inferni senza colori. Ci sono i libri, come quelli di Emilio Targia, Mario Desiati, Francesco Caremani e diversi altri, ci sono le foto di Salvatore Giglio. Ci sono tantissimi modi per informarsi, per ricordare, per onorare, provando a dimenticare la spazzatura che vorrebbe circondare perfino una tragedia come questa.
E, tra le tante, rimane quella copertina e quella foto: quel signore con la barba, quell’espressione incredibile di dolore e sgomento che è la stessa di noi tutti, cui mancano le parole quando, dopo un mese zeppo di calcio, di trionfi e di qualche sconfitta, arriva il 29 maggio. La notte più buia, la notte dell’Olocausto.
Autore di 4 libri, praticamente identici, cambiando solo il titolo e i nomi dei protagonisti: finale sempre uguale. Blogger e opinionista tv. La frase che mi sono sentito dire di più in vita mia? "Ma come fai a essere di Roma e a tifare per la Juve?"