Di Mauro Suma
24 Maggio 2020
Erano passati solo due giorni dalla conquista dell’11esimo Scudetto della Storia rossonera, il primo dell’era Berlusconi, e il Milan stava già pensando a lei. Alla prossima prova del nove, alla Coppa dei Campioni. Tanto vale bruciarle tutte le tappe, non solo una. Nel 1986 il Milan aveva programmato di tornare e qualificarsi per la coppa Uefa nel 1987 e di arrivare allo Scudetto entro il 1990. Un programma triennale di stampo classico, per quei tempi nel calcio italiano. Ma lo Scudetto era arrivato subito, la scintilla era scoccata immediatamente.
La struttura di squadra da titolo era già su strada e bisognava subito provare a declinarla ancora meglio, ad assecondare la sua fame di crescita. Per pesarsi, per capire se il Milan era definitivamente tornato grande oppure se lo Scudetto di Como era solo un episodio frutto di un convulso finale di campionato contro un Napoli in calo, non c’era che una cosa da fare. Tuffarsi nell’Europa, viverla, respirarla, per riportare i colori rossoneri sul tetto del continente, cosa che non accadeva da 20 anni. Mentre, in fondo, lo Scudetto mancava da soli 9 anni dalla bacheca di via Turati. La gloria vera era rappresentata dalla coppa dalle grandi orecchie, dalla coppa dei Campioni. Ecco perché, due giorni dopo Como, il Milan allenato da Arrigo Sacchi era già a Manchester. Pronti-via e amichevole di lusso a stagione non ancora finita, una grande sfida cotta e mangiata contro il Manchester United che era già di sir Alex Ferguson in una squadra che aveva in Bryan Robson la sua stella più importante.
A portare i saluti ai neo-campioni d’Italia Bobby Charlton che, contro i rossoneri, aveva perso la semifinale dell’ultima, fino a quel momento, coppa dei Campioni vinta dal Milan: nel 1969. Diciannove anni dopo l’amichevole di ripresa di contatto con l’Europa finiva così: Manchester United-Milan 2-3, la prima dimostrazione che quel gruppo tricolore poteva anche reggere l’urto delle grandi non solo in Italia. Ma ad Arrigo Sacchi non bastava, era troppo tempo che il Milan pascolava lontano dalle grandi platee europee, aveva frequentato troppa provincia calcistica italiana per troppi anni, per essere pronto fin da subito a tentare l’assalto all’unica coppa che dà, trasmette e tramanda gloria vera. Ecco perché, di lì a pochi mesi, il Milan avrebbe sostenuto amichevoli anche contro Bayern Monaco, Tottenham, Psv Eindhoven…tutte sfide che il tecnico di Fusignano sperava in cuor suo di non vincere, per trovare il terreno giusto per spiegare ai suoi campioni le cose che ancora non andavano, che ancora bisognava mettere a punto sulla strada di una perfezione mei meccanismi ancora lontana. E invece, una dopo l’altra, tutte le amichevoli di lusso del Milan pre-coppa dei Campioni andavano che era un piacere, il Milan vinceva e convinceva…
La corsa verso la finale di Barcellona era iniziata in una landa dell’Est, a Sofia contro il Vitocha. E proprio nell’est di quella Europa, che il club sognava di trasformare nel proprio habitat naturale, rischiava di inabissarsi la traiettoria del nuovo Milan paradiso continentale. La Stella Rossa si era portata in vantaggio, sia a San Siro che al Marakàna di Belgrado: la qualificazione di Savicevic e compagni sembrava non solo cosa fatta, ma anche meritata. La nebbia del destino aveva invece rimesso in corsa il Milan, pronto a fare uno sforzo immane che avrebbe pagato poi in campionato…pazienza.
Nella ripetizione, senza gli squalificati Virdis e Ancelotti e con il giovane Mannari, la squadra di Gullit e Sacchi ha fatto il miracolo. Mancavano però ancora 4 partite alla finale del 24 Maggio 1989: le due dei quarti e le due semifinali. Quante volte, i tifosi rossoneri hanno imprecato e quante volte hanno saldato il debito con la nebbia salvifica…due gol di Mannari non concessi sia a Belgrado che a Brema, il gol regolare annullato a Gullit a Madrid per un fuorigioco inesistente, ma dopo ogni ostacolo, dopo ogni ingiustizia, Barcellona restava sullo sfondo. Fino a conquistarla definitivamente, dopo il 5-0 di San Siro contro il Real: eccola l’aria frizzante della capitale catalana. Milano chiama, Barcellona risponderà?
Al loro arrivo sulle Ramblas e attorno ai monumenti cittadini, i tifosi rossoneri fin da due giorni prima della partita venivano accolti da sorrisi e saluti da parte dei taxisti e degli automobilisti catalani. Del resto il Milan aveva rifilato 5 gol alle merengues, sono cose che nella città blaugrana non passano inosservate. Bene, Barcellona tiferà per noi, ma basterà? Il Milanista non osava sperare, dopo tante sofferenze era impensabile riuscire a tornare ancora una volta campioni d’Europa, dopo gli anni Sessanta, dopo i miti, dopo Wembley e dopo il Bernabeu. La Steaua tre anni prima aveva vinto la coppa dei Campioni, nel 1986, quando Sacchi era ancora un semi-sconosciuto allenatore del Parma. La Steaua di tre anni dopo era diversa, ma sulla carta ugualmente temibile: era rimasta un po’ di ossatura composta da Iovan e Bumbescu, da Lacatus e Piturca e Balint. È vero, non c’erano più Belodedici e Boloni, ma c’era pur sempre il Maradona dei Carpazi, un certo Gheorghe Hagi. C’era un alone di mistero su quella Steaua, non è che ci attirerà nel trappolone dei rigori come ha fatto nella finale contro il Barcellona e poi ci befferà?
Ansie, dubbi, di un popolo non ancora abituato alle finali, come invece sarebbe accaduto negli anni a venire. E poi noi avremo Rijkaard a centrocampo e Ancelotti nel ruolo di Evani, ma non sarebbe meglio tenere Franck dietro e Carlo nel suo solito ruolo? Interrogativi di una vigilia che non finiva mai, ma alle 17.00 di quel 24 maggio ogni tipo di paura atavica veniva spazzata via. Il lunghissimo viale che porta dal Princesa Sofia al Camp Nou era totalmente paralizzato. Una folla traboccante rossonera aveva già vinto la Coppa. Il pubblico non vince mai da solo le partite, ma quello non era un pubblico. Quello era un muro d’amore invalicabile, aveva i colori rossoneri e il sogno del titolo europeo nel cuore.
Non possiamo perdere, è stato il pensiero dei giocatori alla vista di quella fiumana ineluttabile e infatti non avrebbero perso. Forza e magia, potenza e classe, disciplina tattica e colpi individuali. Così il Milan ha indicato al calcio, lo sport più diffuso e giocato sul Pianeta, una nuova frontiera, una visione proiettata nel futuro. Era una Coppa, ma non era solo un trofeo. Era una vittoria, ma soprattutto l’apertura di una nuova pagina, dentro un libro sconosciuto fino a quel momento. La Steaua Bucarest non aprì bocca e prese atto, mentre per il Milan iniziava una notte bellissima. Con la sensazione che bussava forte all’oblò della Storia: proprio così Milan, sei felice ma pensa solo che il bello deve ancora venire…
Giornalista e Consultant AC Milan, milanista da trincea più che da salotto, radio e tv nelle corde, derbyderbyderby.it nel cuore. Per ogni articolo preparo e curo anche le virgole, ma per ogni telecronaca porto con me solo le emozioni.