Quasi fosse un gioco, becero, del destino.

Gigi Simoni se ne va, in punta di piedi come suo costume, il giorno dell’apoteosi nerazzurra, quel 22 maggio che resterà per sempre scolpito nella storia dell’Inter. Beh, da ieri ancor di più.

Un Signore del pallone, la esse maiuscola non è un errore di battitura, un esempio di umiltà e capacità per gli allenatori di ieri, di oggi e di domani. Le staffe, a Gigi, le ho viste perdere in una sola circostanza: un pomeriggio, non qualunque, a Torino, di fronte a un episodio che, dal suo punto di vista – e non solo suo aggiungerei – aveva privato squadra e tifosi di un grande sogno. Ecco, in quella precisa circostanza l’aplomb che ne ha accompagnato la lunga carriera è andato a farsi benedire, seppellito da un fischio mai arrivato per un fallo mai sanzionato.

L’ho incontrato, per l’ultima volta che non immaginavo nemmeno lontanamente sarebbe stata l’ultima, una sera d’estate del 2016, a Reggio Emilia. E abbiamo parlato di calcio. Di tanto calcio. Di bel calcio.

Da Mantova a Napoli, da Pisa a Sofia, da Lucca a Milano, da Genova a Roma, Simoni è stato un vero girovago del pallone, mondo che lo ha fagocitato nel 1955 – giovanili della Fiorentina – e da cui è uscito, definitivamente, il 2 giugno 2016, come presidente della Cremonese. In mezzo chilometri e chilometri, migliaia di chilometri, su e giù per i campi di tutta Italia, isole comprese. Fin da calciatore.

Già, perché Gigi non è solo l’allenatore Simoni. È il calciatore Simoni, il centrocampista che vanta oltre 400 presenze da professionista condite da 55 gol. Mica male, la porta, il Signore di Crevalcore la vedeva, eccome.
La sua correttezza professionale ha fatto sì che, a memoria, non ricordi di averlo sentito mai parlare con astio o cattiveria di una delle società con e per le quali aveva lavorato prima da giocatore, poi da allenatore, infine da dirigente. Aveva una parola buona per tutti, anche per chi troppo precocemente lo aveva messo in un angolino, bocciato per oscure motivazioni. Perché al Gigi è capitato anche questo, di conoscere il lato peggiore del fantastico universo pallonaro: certo in sessant’anni è anche umano attraversare qualche periodo opaco della propria carriera e storia lavorativa. O, come nel suo caso, di essere sollevato dall’incarico senza un vero motivo, una ragione specifica.

Genova e Cremona sono state le sue città, quelle che forse hanno rappresentato il porto sicuro, la seconda casa, il cuore calcistico. Anche se, a dirla tutta, l’apice della carriera da tecnico Simoni la raggiunge a Milano, sponda nerazzurra, dove arriva ad un passo dal paradiso, abbiamo già parlato della fine del sogno e basta così, per poi toccare con mano la vittoria europea, quella di prestigio, quella di valore quando la coppa Uefa aveva un valore, quella che ti consegna alla notorietà non solo europea, anche se Gigi la notorietà non l’ha mai inseguita.

Era riuscito, con l’Inter, a tenere unito uno spogliatoio pieno di caratteri tosti, forse anche difficili, di Ronaldo e Simeone, di Zamorano e Djorkaeff, di Bergomi e West. Non c’era uno solo dei giocatori della rosa di quella stagione che sentirete mai, nemmeno dopo una bottiglia di Buffalo Trace bevuta tutta d’un fiato, parlare non dico male, facciamo così e così, di Gigi Simoni. E, sebbene la sua avventura in nerazzurro sia durata molto meno di quanto avrebbe dovuto e potuto essere, la tifoseria interista venera il tecnico emiliano come se fosse sempre e da sempre stato nerazzurro. Un’unione di intenti e sentimenti che capita di rado in un mondo dove l’allenatore è sempre il responsabile di tutto, il cattivone da esautorare. Io credo che, se Massimo Moratti potesse tornare indietro nel tempo e cambiare una sua decisione, Simoni non sarebbe mai stato sollevato dall’incarico.

La sua firma non è il palmarès, ma quel sorriso che lo accompagnava ovunque. Il sorriso di un uomo schietto e sincero, pulito, lontano anni luce dai giochi di potere, dedito al lavoro a 360° gradi, mai doppiogiochista, mai falso. Quel sorriso che ricordo oggi come quattro anni fa, mentre mi raccontava il suo calcio con pacatezza, con arguzia, con semplicità.

Lui, l’uomo che aveva allenato, tra gli altri, Ronaldo e Roberto Baggio.
Buon viaggio Gigi.