Di Redazione William Hill News
Aggiornato: 20 Maggio 2020
Nereo Rocco, uno dei personaggi chiave della storia del calcio italiano, secondo un’interpretazione che è certo un’iperbole, ma con molti spunti di attinenza alla realtà, può essere considerato addirittura l’inventore del calcio italiano. Non tanto per i titoli nella sua bacheca, numerosi e prestigiosissimi (Rocco fu tra le altre cose il primo tecnico della storia a portare in Italia la Coppa dei Campioni, con il Milan nel 1963), quanto per la sua ben definita filosofia di gioco, votata ad una granitica organizzazione difensiva, tipica di quel Catenaccio che a lui deve la paternità almeno tra i confini nazionali, che andrà ad instillarsi nel dna del calcio nostrano. Del campionato e della nazionale, a tutto tondo.
Nereo Rocco: el Paròn
L’opera di Nereo Rocco è senza dubbio uno degli spartiacque nel corso della storia calcistica italiana. Il Catenaccio non è una sua invenzione, ma il tecnico triestino ha avuto il merito di esserne l’importatore dal calcio svizzero, dove quel tipo di impianto tattico era diventato il tema dominante nel corso degli anni ’30. Rocco ne affinò i tratti e portò le idee, che stavano alla base di quel tipo di calcio, ad un livello superiore di organizzazione.
Non pretendeva la bellezza estetica, anzi, quanto fosse meglio essere efficaci piuttosto che belli fu spesso motivo di autoironia da parte dello stesso allenatore: all’augurio “vinca il migliore” la risposta del tecnico, rigorosamente in dialetto triestino, era “speriamo di no”, una battuta divenuta celebre, a rimarcare la sua speranza che vincesse la squadra meno “bella”, ovvero la sua.
In questa riluttanza agli inutili barocchismi, le sue squadre somigliavano al proprio tecnico, uomo tutto d’un pezzo che non aveva timore di essere tacciato di severità, nonostante la bonomia che tutte le persone che hanno lavorato con lui gli hanno sempre riconosciuto.
Leggenda vuole che non volesse essere chiamato ‘mister’ dai propri giocatori, quanto piuttosto “Signor Nereo Rocco” e da qui, anche per ironizzare su un’intransigenza che in fin dei conti non era così marcata, gli venne cucito addosso il soprannome che lo accompagnerà per sempre nel mondo del calcio: el Paròn, il padrone.
Dalla Triestina al Milan
Nato il 20 maggio del 1912 a Trieste, non abbandonò mai la sua anima provinciale, intesa nel senso romantico del termine, fatta di modi schietti, spunti di sorriso (come gli allenamenti condotti in dialetto), ma anche di grande umanità e capacità di empatizzare con i componenti delle sue squadre, fossero questi della sua Triestina o i grandissimi campioni del Milan.
Emblematiche in questo senso le parole di un giocatore che, sotto la guida di Nereo Rocco, si è affermato come uno dei più forti della propria epoca, il Pallone d’Oro 1969 Gianni Rivera: “Hanno detto che ero il terzo figlio del Paròn. Bruno, Tito, e Gianni Rivera. Ma Rocco per me più che un padre è stato soprattutto un fratello maggiore. Era il mio allenatore ma anche una persona di grande umanità”.
La vittoria della Coppa dei Campioni
E’ proprio con il Milan, dopo l’ottima esperienza alla guida del Padova, che Rocco si impone alla ribalta del calcio italiano ed europeo: corre la stagione 1962-63 quando il Milan, dopo lo Scudetto vinto nell’anno precedente, vola a Wembley per disputare la finale di Coppa dei Campioni. L’avversaria è una delle squadre più forti dell’epoca, il Benfica di Eusebio. E’ proprio del fuoriclasse portoghese il gol che sblocca la gara, ma i rossoneri ribaltano il match nel secondo tempo, con una doppietta di Josè Altafini. E’ il Milan di Altafini, Rivera, Trapattoni e Cesare Maldini. E’ il Milan Campione d’Europa e la prima italiana della storia a vincere il trofeo.
Rocco lascia il Milan da campione per accasarsi al Torino, in cui il suo lavoro, nei quattro anni di permanenza sotto la Mole, sarà fondamentale per gettare le basi della rifondazione societaria dopo la retrocessione del 1959, sebbene non porti ad alcun trofeo.
Fa ritorno al Milan 1967, questa volta per rimanere, ma soprattutto per vincere e strappare all’Inter di Helenio Herrera il dominio in campo nazionale e internazionale: vince nuovamente il Campionato, due Coppe delle Coppe e, soprattutto, la seconda Coppa dei Campioni, nel 1969 allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, annichilendo in finale per 4-1 quello che di lì a poco sarebbe diventato il grande Ajax del calcio totale. La Coppa Intercontinentale del 1969 è l’ultimo trofeo di una carriera partita dalla provincia e terminata ai vertici del calcio mondiale.
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