Di Francesca Brienza
Aggiornato: 12 Febbraio 2020
La Roma sembra la controfigura di Ghali, che ti procura uno spavento portandoti a credere che sia caduto dalla scalinata di Sanremo, per poi rispuntare, sano e salvo, da un’altra parte, facendoti tirare il classico sospiro di sollievo: insomma, un’incessante alternanza di euforia e disperazione. Eh già. Non a caso si è consapevoli di essere “tifosi romanisti doc” solo quando, alla gioia di una settimana, fa puntualmente seguito l’amarezza di quella successiva. Basta davvero poco tempo per rendersi conto di aver abbracciato una fede calcistica che mette a durissima prova le coronarie: la Roma è una squadra che è solita vincere quando pensi che perderà, e che perde quando ti aspetti che trionferà. Prevedere cosa faranno i calciatori, una volta scesi in campo, è quasi impossibile.
Proprio per questo motivo, temprata da 33 anni di tifo ininterrotto, io non ci casco più: mi siedo sul divano, o vado allo stadio, senza alcuna pretesa. Osservo, analizzo, e solamente a fine partita maturo le mie conclusioni. Che Roma era quella ammirata contro la Lazio? Da stropicciarsi gli occhi! Quella vista al Mapei contro il Sassuolo, invece? Una bruttissima copia della precedente. E l’ultima in casa contro il Bologna? Un incubo! Chi si aspettava un tranquillo rientro a casa dopo il “ricovero” lampo di Reggio Emilia, sarà rimasto deluso. La degenza non è ancora finita, ahinoi. E quando il paziente si chiama “Roma”, abbiamo detto che ogni previsione circa i tempi di recupero va a farsi benedire.
C’è una domanda che, più di tutte, attanaglia il tifoso romanista: com’è possibile?! Sì, perché tentare di capirci qualcosa sull’atavica schizofrenia di gioco e risultati che, da sempre, affligge la squadra, è impresa improba. Proprio qualche giorno fa è riemersa, tra i miei ricordi di Facebook, un’intervista realizzata nel 2014 a casa del signor Aldo Rossi, che al tempo aveva 100 anni suonati. Mi raccontò non soltanto di aver assistito alla prima partita della Roma nel 1927 (ha smesso di andare allo stadio all’età di 92 anni!), ma anche a tutte quelle che contrassegnarono il periodo della “Rometta”, appellativo poco edificante, coniato già a metà degli anni ’60, per descrivere l’insanabile contrasto tra un nome tanto elevato ed ambizioni sportive tanto modeste.
Un trauma che deve essersi sedimentato nelle viscere di Trigoria, tramutandosi nel tempo in paura delle aspettative: anche oggi, come allora, la Roma è infatti capace di sovvertire ogni pronostico, sfoderando prestazioni rimarchevoli quando chiunque paventerebbe il naufragio e, al contrario, prestazioni opache quando sarebbe lecito vedere la squadra navigare con il vento in poppa. Cambiano gli interpreti, dunque, ma non l’atteggiamento. Forse, trattandosi di un problema tanto radicato, un po’ di psicanalisi farebbe bene a questa Roma.
Analizziamo, per esempio, il recente trascorso partendo da un dato inquietante: era dal 2015 che i giallorossi non fallivano l’obiettivo della vittoria su quattro partite disputate tra le mura amiche. Quella contro il Bologna, poi, è stata la quinta sconfitta in otto gare dall’inizio del 2020. In sintesi, nessuna squadra ha fatto peggio. Dov’è finita la Roma che prima di Natale espugnava il Franchi di Firenze? Cercasi spiegazioni. Speriamo non se ne sia andata insieme all’ultimo pezzo di cuore che era rimasto, Florenzi, il cui allontanamento ha generato un vuoto incolmabile in termini di senso di appartenenza. Ad oggi, sembra mancare proprio questo ad una squadra che, storicamente, è sempre stata fiera dei simboli che poteva vantare in campo.
“Il problema è emotivo” ha dichiarato, invece, mister Fonseca a margine della pessima prestazione di venerdì, non potendo di certo scomodare l’alibi della partenza di Florenzi, giocatore che non ha mai davvero goduto di considerazione da parte del tecnico giallorosso.
Non il miglior viatico, insomma, in vista della trasferta di Bergamo contro l’Atalanta, in uno scontro diretto per la zona Champions League che si preannuncia delicatissimo. Non che gli orobici stiano vivendo un momento di forma sfavillante, reduci come sono da due partite casalinghe senza i tre punti: il pareggio racimolato nell’ultimo turno casalingo contro il Genoa, infatti, è seguito all’inopinata sconfitta interna nella sfida con la Spal. In mezzo, tuttavia, il pirotecnico 0-7 rifilato all’agonizzante Torino dell’ex Mazzarri e ora il fresco 1-2 di sabato contro la Fiorentina. Ecco cosa dovrà temere la Roma sabato prossimo. Se l’Atalanta gira, sono dolori per tutti: pressing alto e asfissiante ad inaridire le fonti di gioco altrui, condito da cambi di gioco incessanti e verticalizzazioni improvvise. Chi accusa il colpo senza reagire, rischia che ogni imbucata si trasformi in una potenziale occasione da rete per il Gomez, lo Zapata o l’Ilicic di turno. E in questo momento, lo abbiamo visto, i giallorossi faticano ad imbastire trame di gioco incisive, limitandosi ad un possesso di palla sterile e faticando tremendamente a far breccia tra le maglie delle cerniere difensive avversarie.
Ma non c’è più tempo da perdere. A Fonseca l’arduo compito, questa settimana, di lavorare sulla mente dei giocatori per cercare di non buttare via il lavoro di un’intera annata. Si può dire che per il tecnico portoghese non c’è stato neppure il tempo di concludere la prima stagione in giallorosso, che già si ritrova sulla graticola ad affontare una “crisi” che, statisticamente, deflagrava solo a partire dal secondo anno. Saranno, dunque, giorni duri anche per lui. Ad essere oggetto di contestazione, sono sempre più spesso anche le sue scelte tattiche: “Perché non inserire Spinazzola, al posto di Kolarov, che è stato il nostro miglior giocatore del 2020?”, hanno twittato alcuni. “Ma non sarebbe meglio passare alla difesa a tre dopo aver incassato sette goal in due partite con lo schieramento a quattro?”.
È risaputo che il feeling con i tifosi dipenda strettamente dai risultati: tutto bello quando si vince e se ne avverte l’impagabile calore, molto meno quando non c’è più verso di soddisfare le loro aspettative. Fonseca sa perfettamente di essere stato accolto bene dall’ambiente, ma ha anche capito al volo quanto labile possa essere questo equilibrio. Lavorare contando sul sostegno dei tifosi rende tutto molto più semplice: non solo ai giocatori, ma anche agli allenatori, che sono, notoriamente, quelli più esposti alle critiche. Che ne sarà di questa Roma? “Ora bisogna restare compatti e lavorare a testa bassa”, ha sibilato Kolarov. Speriamo che non restino solo parole.
Conduttrice, giornalista televisiva e viaggiatrice. Di dichiarata fede romanista, da anni prendo parte a molti salotti televisivi che parlano di calcio per far valere anche le opinioni di chi é donna in un mondo apparentemente accessibile solo agli uomini. Vado dove mi porta il calcio e non solo.